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GLI AFFARISTI CHE HANNO MANDATO A FONDO IL PAESE

La classe politica ed imprenditoriale degli ultimi decenni sono i principali fattori del decadimento del Paese e del lento ma inesauribile declino verso il baratro attuale

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Industrializzazione senza rispetto per l'ambiente e occupazione, due aspetti messi volutamente in contrapposizione dagli attuali manager di grandi industrie italiane

Ho avuto casualmente l’opportunità di assistere ad una interessante trasmissione televisiva andata in onda lo scorso 29 novembre su RAI 3 e dal titolo “Le storie-Diario Italiano”.

In quella puntata si era discusso il ruolo che hanno avuto le grandi famiglie industriali italiane dal dopoguerra ai nostri giorni e si è evidenziato e messo in risalto la differenza di metodologia industriale utilizzata dal management dal dopoguerra fino agli anni settanta durante il boom economico rispetto i vertici industriali subentrati nei decenni successivi.

Secondo il giornalista presente in trasmissione Sergio Rizzo è la classe politica degli ultimi decenni, denominata dallo stesso come “casta” in un suo famoso libro, uno dei principali fattori di decadimento del Paese, ma dallo stesso viene indicata anche la classe dirigente italiana, intesa come grandi manager di Stato e grandi famiglie industriali, come fattore determinante, in negativo, del lento ed inesorabile declino del nostro Paese verso il baratro attuale.

l giornalista, nell’illustrare il suo nuovo libro “Razza stracciona”, dice che noi cittadini siamo ormai abituati a considerare i politici come inadeguati e mediocri, dimenticando di fatto però che la classe imprenditoriale è responsabile tanto quanto quella politica di una Italia ferma, incapace di produrre innovazione, sviluppo e ricchezza, che non sa dare risposte concrete ai cittadini e non riesce a porre un argine all’aumento indiscriminato della disoccupazione, soprattutto giovanile.

Sempre secondo Rizzo l’Italia è un Paese nel quale non c’è una’idea complessiva di Paese in cui nessuno, a partire dalla classe politica per arrivare a quella imprenditoriale, si riconosce nel concetto di far parte di una entità globale chiamata Italia.

 Il giornalista ha poi voluto spiegare che il titolo del suo libro “Razza stracciona” è in riferimento ad un altro degli anni ’70 “Razza padrona”, per segnalare la netta e profonda differenza della vecchia classe imprenditoriale italiana rispetto all’attuale.

La “razza padrona” degli anni ’70, che veniva dall’imprenditoria artefice e protagonista del boom economico del dopoguerra, gradualmente è diventata un’altra cosa e nell’attuale non si riesce più ad intravvedere il senso di partecipazione al progresso del Paese e il senso di far parte di una comunità, presente invece nella precedente.

Ed infatti a conferma di quanto affermato si è poi discusso del caso eclatante e clamoroso dell’ILVA di Taranto, ovvero di un caso in cui il vertice aziendale per puro scopo speculativo ha prodotto un inquinamento del territorio tale da sfociare nella catastrofe ambientale di una intera città.

Chi nell’ILVA doveva tutelare l’ambiente non l’ha fatto e chi doveva controllare l’operato dei dirigenti avrebbe insabbiato tutto e da tale intreccio perverso di interessi e mazzette è scaturito non solo il problema ambientale prima accennato ma anche un grandissimo e pericoloso problema istituzionale tra i diversi poteri dello Stato.

Una contrapposizione fortissima tra potere governativo e potere giudiziario stava infatti sfociando in conflitto aperto, con conseguenze probabilmente deleterie e dagli esiti imprevedibili.

Il Governo da un lato con il compito di salvaguardare l’occupazione quasi di una intera città e la Magistratura con il compito di salvaguardare il diritto e la legge, non riuscivano a dialogare e trovare un compromesso accettabile.

La domanda che ci dobbiamo a questo punto porre è come sia stato possibile arrivare ad un punto tale che le uniche due scelte possibili, ma contrapposte tra di loro, sono la diffusione di malattie anche gravi tra la popolazione e l’occupazione messa in rischio dalla chiusura degli impianti.

La storia dell’ILVA è appunto una storia tipica tra le vicende raccontate nel libro di Rizzo; una azienda pubblica l’Italsider finita in mani private tra mille polemiche negli anni ’90, senza però che la nuova dirigenza rispettasse i dettami legislativi legati alla pericolosità delle lavorazioni degli impianti.

La nuova classe imprenditoriale, come appunti i Riva proprietari dell’ILVA, hanno prima beneficiato dell’acquisto di aziende pubbliche, ma poi hanno pensato esclusivamente al profitto immediato, tralasciando gli investimenti, soprattutto quelli che non producono reddito, come appunto gli investimenti per la salvaguardia della salute dei propri dipendenti e della cittadinanza, dimenticando completamente l’importante funzione sociale che le aziende, anche private, svolgono in termini di progresso economico del territorio.

Anche il Governatore della Banca d’Italia negli anni 70, Guido Carli, ebbe a dire in una intervista ad Eugenio Scalfari circa il ruolo degli imprenditori di allora “ … Gli imprenditori italiani non hanno mai considerato lo Stato come una organizzazione sociale in cui loro ne fossero responsabili.  Il loro interesse era che lo Stato aiutasse i loro affari, ma è mancata l’identificazione in esso … “.

Infatti un numero impressionante di imprese, circa ottocentoquarantamila nel corso di questi ultimi decenni, si sono avvalsi dell’aiuto dello Stato mediante sovvenzionamenti pubblici, con i risultati però che conosciamo tutti;  l’errore fondamentale dello Stato è che con questi finanziamenti si sono creati i presupposti per un abbandono da parte delle imprese nell’innovazione tecnologica e nella ricerca.

Quante di queste imprese, dice ancora Rizzo, allettate da facili finanziamenti pubblici, hanno puntato più alla creazione di grandi uffici di relazioni pubbliche, di avvocati per le pratiche per ottenere i finanziamenti, e non invece gli stessi soldi investirli nell’innovazione dei prodotti?.

Per esempio la FIAT, prosegue Rizzo, è un altro caso eclatante di una grande industria che è stata una delle principali protagoniste del progresso del Paese ma che ora non riesce più a vendere i propri prodotti e deve chiudere le fabbriche in quanto non più concorrenziali, appunto per mancanza di investimenti e di ricerca in nuovi modelli che possano rappresentare in qualche modo lo stile italiano.

Come possiamo non essere concordi anche noi socialisti con le tesi espresse nella trasmissione, essendo perfettamente convinti che il profitto inteso come unico obiettivo senza alcuna preoccupazione sullo stato occupazionale e sulla salute dei dipendenti e della popolazione unitamente alla mancanza di innovazione e ricerca siano fattori determinanti dell’attuale crisi?

Solo con una maturazione culturale e imprenditoriale, secondo i canoni della partecipazione alla collettività e della condivisione di interessi comuni, l’imprenditorialità potrà uscire dal baratro che ci sta portando e si potrà ancora parlare di sviluppo economico e sociale.

Può essere utile:

ILVA di Taranto - Un caso emblematico Consulta qui
Protocollo d'intesa Ministero dell'Ambiente ed ILVA Consulta qui
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